Un papà nuovo

Mary Ainsworth, psicologa canadese esperta in psicologia dello sviluppo, osservando e studiando l’ambiente domestico, si chiedeva quali tratti di personalità dovese avere una madre per poter strutturare con il proprio bambino un legame sicuro di attaccamento. Inoltre, rifletteva sull’importanza della storia affettiva del figlio con la caregiver per mettere in atto comportamenti organizzati e congruenti in risposta alle situazioni reali di vita. Anche Bowlby nelle sue analisi attribuiva alla figura materna una funzione preminente nell’attaccamento. Molta letteratura pedagogica e psicologica si è soffermata a lungo (talvolta non senza un eccessivo accanimento), sul ruolo materno e sulle sue responsabilità. In effetti molti degli esperimenti al riguardo sono stati effettuati su madri e figli.

Tuttavia, siamo in una società in continua evoluzione dove i paradigmi scientifici non solo andrebbero rivisti in base a nuove prospettive e interpretazioni della realtà, ma inoltre, molti degli assunti che diamo per certi sono fondati su un’analisi delle cose parziale e condizionata dai bias e dagli stereotipi del periodo in cui vengono formulati. Ad esempio, nella nostra società si è dato spesso per assodato il binomio donna-madre come naturale, e questo di certo ha influito sulla percezione delle madri rispetto alle loro possibilità sulla base delle aspettative sociali e dei limiti imposti di tempo in tempo alle donne. E anche sulla ricerca rispetto al funzionamento di certi meccanismi famigliari.

Paradossalmente, la figura paterna ha sempre detenuto un ruolo di comando maggiore rispetto a quello femminile anche nell’ambito famigliare, ma ciononostante non ha goduto di molta attenzione da parte della comunità scientifica. Forse, il retaggio culturale che associa l’uomo all’indipendenza, al potere, alla possibilità di realizzarsi in ogni campo dello scibile senza vincoli legati alla biologia, al diventare padre o meno, ha spostato le nostre pretese solo sulla genitorialità materna. Eppure, proprio per questi motivi sarebbe prioritario indagare quella del padre. Indagare come la figura che in famiglia viene percepita come più autorevole condiziona i suoi componenti. Ma per fare ciò occorre eliminare il tabù rispetto al dibattitto sui ruoli di genere, specialmente in riferimento alla figura del padre. Occorre rendere gli studi di genere strumento fondamentale per indagare i rapporti tra uomini e donne, a partire dal legame coniugale e dalla conseguente formazione di un nucleo famigliare.

Necessitiamo di poter discutere il ruolo paterno e le sue disfunzionalità senza il retaggio obsoleto e depistante del timore reverenziale nei suoi confronti. Svincolandoci da quell’aura intoccabile che ha circondato per troppi secoli i padri, tenendoceli a debita distanza emotiva e che proprio per questo ci ha impedito di effettuare una critica costruttiva nei loro confronti. E con questo non si intende prendere spunto da quei pochi autori che oggi parlano di paternità criticando il decadimento della figura paterna attuale e rimpiangendo il nesso simbolico padre-legge-comando. Perché non c’è nulla di innovativo e risolutivo rispetto alle “complicazioni” della figura paterna nella continuità con quei valori dispotici patriarcali. Anzi, urge ripensare il ruolo del padre in un’ottica più “sostenibile”.

Il papà. Si tratta di un uomo che sceglie di intraprendere un progetto di vita che coinvolgerà partner e figli/e. Per generare benessere bisogna pensare a figure genitoriali umane, collaborative e amorevoli. Il guaio è che in Italia ad oggi ci sono poche soluzioni anche in termini pratici per garantire il welfare famigliare a partire da quello materno-femminile. Pensiamo ad esempio a un mancato congedo di paternità adeguato e di come quest’ultimo invece rafforzerebbe positivamente il ruolo paterno legandolo ai valori indispensabili e universali della cura canonicamente attribuiti al femminile e che ancora gravano solo sulle spalle della donna senza retribuzione. Valori a cui dovremmo essere educati tutti e tutte a prescindere dal genere. Fortunatamente, emergono pian piano iniziative interessanti anche sui social come Educate Future Men. Finalmente si sta iniziando a guardare al maschile in un’ottica più umana. Da un’aspettativa di genere rispetto all’uomo meno stereotipata, tossica e machista.

Quel tipo di “sicurezza” e protezione che invece i padri hanno fornito nei secoli passati erano strettamente legate a esigenze e contesti profondamente misogini, caratterizzati da estrema violenza, arretratezza e povertà di strumenti scientifici e pedagogici validi per analizzare in modo costruttivo le relazioni tra esseri umani. Più che una sicurezza sana legata a un senso di fiducia ed equilibrio, si potrebbe parlare di una sicurezza legata alla sudditanza dei figli maschi e soprattutto delle femmine al padre, destinate all’eterna subordinazione. Un po’come ci si affida a un sovrano. Non a caso per molti secoli si è riproposta questa ambigua metafora anche in ambito famigliare. Consegnare la propria autonomia individuale a un marito/padre da cui dipenda interamente l’economia e le decisioni rispetto al nucleo famigliare. Era un tipo di paternità che pone in condizione di sottomissione, obbedienza e timore l’altro genitore, la madre a cui al contempo il patriarcato attribuisce tutte le responsabilità del caregiver. E dovremmo piuttosto chiederci cosa potesse offrire una maternità talmente contraffatta e vulnerabile ai figli e alle figlie, futuri cittadini del mondo. Cosa può offrire oggi il retaggio di una asimmetria talmente grande tra il ruolo paterno e materno? Conosciamo bene gli esisti violenti del sessismo e della discriminazione nelle società attuali e passate. Non serve un master in antropologia per renderci conto dell’elevata conflittualità, sofferenza e violenza in qualsiasi sistema in cui manchino pari diritti e opportunità.

Ad oggi occorre svecchiare la prospettiva machista e (auto)distruttiva della paternità che ancora inquina i rapporti tra esseri umani e il nostro modo di analizzarli obiettivamente. Occorre imparare a comunicare senza le interferenze del pregiudizio, in modo da confrontarci autenticamente. Cercare soluzioni sostenibili e collaborative, basate sull’ascolto attivo dell’altra persona a prescindere dal genere. Creare punti d’incontro quando ci rapportiamo tra uomini e donne, padri e madri, esseri umani e quindi società. Dobbiamo creare società più equilibrate e welfare attraverso il restituire valore alla cura e alla capacità di accogliere, oltre il genere.

Dunque, credo sia il caso di chiederci che incidenza abbia il ruolo del padre nell’attaccamento sicuro con i figli e le figlie, anche quando non li accudisce direttamente. Se ancora purtroppo si parla di “capofamiglia” in riferimento al solo genitore maschio che porta le redini del nucleo famigliare, come possiamo trascurare la portata della sua influenza nella crescita emotiva dei figli? Spesso a prescindere dal comportamento della madre e della sua vicinanza ai bambini, spetta al genitore maschio l’ultima parola sulle decisioni famigliari. In quest’ottica è assurdo concentrarsi unicamente sulle responsabilità materne, risulta tautologico, improduttivo e inconcludente lavorare esclusivamente su queste ultime. Il fatto che reputiamo naturale la genitorialità femminile forse ci distoglie dal constatare obiettivamente che spesso la donna ha un raggio di scelta ben minore di quello che pensiamo (anche per quanto riguarda le risposte alle esigenze dei figli e il suo comportamento materno in generale). Specie in una società che ha ancora aspettative talmente stereotipate rispetto alla maternità. Ma un essere umano, persino una madre, non può esprimere al meglio il suo potenziale quando si ritrova in una condizione di subordinazione o, come accade in certi casi più gravi ma fin troppo frequenti, persino di violenza domestica.

Magari potrebbe essere interessante, soprattutto per questi ultimi casi, se nella “Strage situation” in cui si valuta l’attaccamento madre-figlio, subentrasse anche il padre, infine. Per vedere come cambiano i comportamenti del figlio, ma anche quelli della madre nei confronti del figlio in reazione all’arrivo di una figura problematica che disorganizza l’assetto famigliare.

Al di là dei tecnicismi, occorre ripensare la paternità in una chiave più umana e al passo con le esigenze moderne, per evitare discriminazioni obsolete che non sono più accettabili in una società dove donne e uomini condividono sempre di più l’esperienza genitoriale attraverso la collaborazione, il rispetto reciproco e la parità di genere. Dobbiamo avvicinarci ai modelli nord-europei che hanno fatto progressi in termini di benessere, welfare e parità di genere (questi concetti, non a caso, sono inscindibili e crescono di pari passo!). Occorre pensare alle qualità di un padre “sufficientemente buono”, di un bravo papà. Non di un “mammo”. Autorevolezza, tenerezza, capacità di cura e risposte coerenti ai bisogni emotivi dei figli sono tutte caratteristiche positive che devono coesistere in entrambi i genitori.

Ad oggi possiamo osservare senza ombra di dubbio che un ruolo rigido, dispotico e autoritario è in contraddizione con le qualità di premura tipiche della genitorialità. Ma allora perché spesso reputiamo accettabile, se non auspicabile, che un padre assuma simili tratti? La figura paterna tradizionale e canonica non si concilia più con l’urgenza di educare a una paternità responsabile e amorevole, che trasmetta sicurezza ai figli in un senso più ampio. Purtroppo per molto tempo il valore di un uomo si è misurato in base alla sua capacità di controllo e di imposizione specialmente sul femminile, reprimendo l’emotivo, i sentimenti, le lacrime, i bisogni umani e più intimi, lasciando spazio e dignità soltanto all’emozione della rabbia. Oggi, per fortuna sappiamo che questo genera problemi anche negli uomini stessi. Conosciamo l’importanza dell’accettare la nostra vulnerabilità umana e di esprimere in nostri bisogni in modo assertivo ma non prevaricatorio. Ma quanto ancora la figura del papà è schiacciata dal retaggio del padre-padrone?

Come vedremo nel prossimo articolo, in base alle ultime ricerche e statistiche, i maschi tendono ancora a nascondere la propria emotività considerandola un elemento di debolezza e questo li predispone a una maggiore sofferenza psichica e a rifiutare cure psicologiche e prevenzione. Immaginiamo quanti di questi retaggi machisti un uomo porta, senza nemmeno accorgersene, nel suo ruolo genitoriale. Quanti ne trasmette ai figli e alle figlie e in che modo questi ultimi interiorizzano il problema a seconda del loro genere. Quante insicurezze può incontrare una ragazza nel rapportarsi al genere maschile e quante un ragazzo nell’esprimere serenamente la propria emotività quando il padre non ne è stato capace. E infine quanto questi ostacoli condizionano la salute dell’intero nucleo famigliare e dell’uomo stesso. Lo vedremo nel dettaglio in seguito.

Per il momento iniziamo anche solo a porci nuove domande, da una prospettiva diversa rispetto alla solita, per arricchire la nostra consapevolezza rispetto alle sfaccettature della realtà che ci circonda. Oltre gli assunti che abbiamo dato per certi ma che in realtà raccontano solo una versione dei rapporti umani spesso piena di paternalismo. Ci accorgeremo facilmente che le relazioni interpersonali, l’andamento del welfare, delle famiglie e delle società non può prescindere dai rapporti di genere. Quindi abbiamo bisogno di valutarli in modo obiettivo e approfondito e di ripensarli. Senza lasciare al caso le dinamiche che li caratterizzano. Dobbiamo supportare i gender studies affinché la ricerca si faccia carico di una riflessione intorno a queste tematiche, svincolandosi da una prospettiva parziale che non mette in discussione il sistema da cui originano. Uscire da questa miopia significa dar spazio a rapporti paritari e reciproci tra uomo e donna, far sì che gli esseri umani condividano progetti di vita migliori.

Articolo a cura di Beatrice d’Abbicco


Sull’autrice: 

mi chiamo Beatrice Carmen d’Abbicco, ho 26 anni e una laurea in Lettere. Studentessa di Scienze dello Spettacolo, educatrice, poeta, appassionata di arte e di ogni dettaglio dello scibile che mi desti curiosità. Profondamente grata agli studi di genere perché sono prospettive da cui osservare la realtà oltre il “sipario” degli stereotipi.


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